In una discussione a proposito del canto XVIII dell'Inferno con un gruppo di persone, ricordo che un fiorentino spiegò che il fenomeno dell'epitesi di -ne per alcuni monosillabi accentati e per alcune parole tronche si può ancora sentire da qualche parte della Toscana. Credo fosse in campagna, non in città.
Mi riferisco al passo in cui Virgilio annuncia l'arrivo di Giasone, in cui si trova il verbo "féne" (che sta per fe') con l'epitesi di -ne:
E 'l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda: 84
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne. 87
Per mia sorpresa, sfogliando il libro L'italiano nelle regioni: Roma e il Lazio di Pietro Trifone ([1] e [2]), mi sono imbattuta in una spiegazione dei fenomeni fono-morfologici più caratteristici del romanesco di Giuseppe Gioachino Belli, tra cui, a pagina 67, si trova questo:
l'epitesi di -ne, cui Belli ricorre soprattutto in rima (nei monosillabi accentati come dine 'dire', none 'no', quane 'qua', tene 'te' e in qualche polisillabo ossitono)
Immagino che dine veramente corrisponda a di'.
Non avevo idea che questo fenomeno fosse stato presente anche nel romanesco. Si può riscontrare ancora oggi da qualche parte nel Lazio? In generale, dove si può sentire questa epitesi di -ne, se veramente è ancora viva nell'attualità?