Non chiamerei l’apostrofo un segno diacritico, ma non è molto importante.
Nell’ortografia italiana, così com’è oggi, ci sono alcune particolarità:
- l’accento grafico obbligatorio sulle parole ossitone;
- apostrofo per l’elisione;
- nessun segno per il troncamento, con qualche eccezione.
Le eccezioni sul troncamento sono le note parole
po’ mo’ ca’ fra’
(il Treccani però dice che fra’ e frà sono meno comuni di fra), gli imperativi
da’ di’ fa’ sta’ va’
(che hanno un’origine propria e indicano forme dell’imperativo sviluppatesi a fianco di dai dici fai stai vai) e altri che vogliono l’accento come piè.
Di fatto, l’accento sulle parole ossitone era un apostrofo che indicava la caduta della sillaba finale e poi si trasferì sulla vocale. La distinzione fra accento acuto e grave è recente.
A parte questi casi, il troncamento non si segnala. Come distinguere? La regola pratica è vedere se la parola “mozzata” ha “vita propria”:
un albero, un disegno
nessun impegno, nessun gioco
qual è, qual buon vento
(Fra parentesi: l'italiano ha due articoli indeterminativi, cioè uno e una, solo che il primo ubbidisce alle regole fonetiche che impongono certi troncamenti.)
Se la parola “mozzata” può essere adoperata davanti a consonante, nessun segno. Al contrario
un’ora, una vignetta
L’articolo una non può essere “mozzato” davanti a consonante, quindi vuole l’apostrofo.
Si può restare incerti se si debba scrivere pover’uomo o pover uomo, visto che pover tapin è negli immortali versi di “Ho visto un re”, ma direi che certi troncamenti usati in poesia non fanno regola.
Non credo che la domanda sul perché certi troncamenti si segnino con l’apostrofo abbia risposta: qual è la differenza fra po’ e piè? Non ne vedo. L’unica spiegazione è che la tradizione ortografica ormai è questa.