L'accento grafico italiano deriva da un apostrofo che indicava la caduta di una sillaba. In Dante si trovano sia virtute sia virtù. Ovviamente le esigenze metriche spiegano l'uso delle due varianti, ma è evidente che ai suoi tempi la sillaba finale non era ancora definitivamente caduta. Il pennacchio si spostò sulla vocale, probabilmente per distinguere i due usi dell'apostrofo e divenne essenzialmente obbligatorio segnare il pennacchio su tutte le parole ossitone.
La forma grafica in stampa è stata per secoli quella dell'accento “grave”, senza distinzioni. Solo nel ventesimo secolo, credo su influsso del francese, si cominciò a distinguere tra accento grave e acuto sulla “e finale” per indicarne la pronuncia aperta o chiusa. Come ho già fatto notare, in questa edizione del 1830 dei Promessi Sposi non compaiono accenti acuti, ma è facile controllare che lo stesso accade per libri molto posteriori (per esempio questo di Pirandello del 1922 dove c'è sempre perchè).
Sulle macchine per scrivere vendute in Italia comparivano queste vocali accentate: à è é ì ò ù (solo minuscole). Nessuna parola propriamente italiana ha la “o finale” chiusa; anche i prestiti meno recenti dal francese come borderò hanno pronuncia aperta mentre in francese sarebbe chiusa.
La storia degli accenti in catalano è diversa. Non so chi abbia cominciato per primo a segnare gli accenti: catalani, castigliani o portoghesi; sta di fatto che le regole sulla segnatura dell'accento sono molto simili nelle tre lingue. In castigliano non c'è la distinzione tra vocali aperte e chiuse, che invece esiste in catalano, che ha un sistema vocalico molto simile a quello dell'italiano. In particolare, il catalano deve distinguere tra ò e ó in posizione intermedia.
Qualcuno sostiene che anche in italiano l'accento dovrebbe essere acuto sulle vocali chiuse (i e u), con buoni argomenti. Tuttavia la tradizione è diversa. Alcune case editrici hanno come prassi editoriale quella di adoperare í e ú, altre seguono la tradizione con la sola eccezione per è/é.
Si può notare che il Touring Club Italiano usa, nelle sue carte, sempre l'accento acuto (per esempio Venézia) per indicare semplicemente la vocale tonica, senza prendere posizione sulla pronuncia aperta o chiusa: i veneti dicono senza alcuna esitazione Venèzia e un Venézia sarebbe accolto con alzate di sopracciglio se non con risatine.